... Sant'Andrea di Conza
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessantissimo aneddoto inviatoci dall'amico Gerardo Vespucci.
Maria Rosaria Omaggio, Alfonso Maria Di Nola, Luigi Di Gianni, e noi. Con zia Angelina Tobia (la Sciucche) e Antonio Angrisani (Antoniuccio Scimbò)
Era il 1988, la RAI su ideazione di Maria Rosaria Omaggio, aveva avviato una trasmissione su RAI2, in 13 puntate, alla ricerca di ...
... 13 materie di frontiera: sulle note preziose di Oceano di silenzio di Franco Battiato, Maria Rosaria Omaggio conduceva gli ascoltatori nell’Incredibile, ossia nelle tematiche di frontiera tra magia, demonologia, stregoneria, ufologia, profezie, antropologia – tradizioni e superstizioni – la vita oltre la vita. L’Incredibile, appunto!
Tra i suoi consulenti scientifici c’era il grande antropologo e docente di Storia delle religioni all’Orientale di Napoli, Alfonso Maria Di Nola, - pare, suo docente all’Università – già noto a diversi cittadini di Sant’Andrea, grazie alla casuale occasione che gli offrì il mio racconto sul rito della Passata di Pescopagano, in un fine settimana di giugno 1981, a casa sua: ad agosto venne a trovarci, ospite del suo alunno di allora, Sabino Scolamiero, per investigare sul campo il rito, su cui poi nel 1983 ha scritto L'arco di rovo: impotenza e aggressività in due rituali del Sud pubblicato da Bollati Boringhieri.
A Di Nola erano affidate due puntate, come riportato nel libro di Maria Rosaria, dal titolo Il mio viaggio nell’Incredibile: suo il commento alla puntata su Il Demonio e suo su Tradizioni e superstizioni popolari.
Sul primo argomento, Di Nola era un esperto di prim’ordine avendone scritto in abbondanza, prima con una inchiesta e poi con un testo che era diventato un vero best seller.
Sul secondo, Alfonso doveva necessariamente farsi aiutare per presentare qualcosa di nuovo, prodotto sul campo. E fu così che si ricordò del vecchio amico, che ero io, e dei due giovani allievi, miei amici, entrambi di Sant’Andrea, che aveva da poco laureato con tesi in Storia delle Religioni all’Orientale di Napoli: Erberto Petoia e Liberato Ruggia.
E fu così che in un pomeriggio di fine estate (?) del 1988 venne a Sant’Andrea, a casa di Erberto Petoia, un regista – accompagnato da un operatore cinematografico –: Luigi Di Gianni, famoso negli ambienti cinematografici soprattutto per i suoi documentari di antropologia, realizzati insieme con Ernesto De Martino – ma ai più sconosciuto, all’epoca – che si scoprì, poi, essere nativo di Pescopagano (è inutile dire che dopo la sua morte, avvenuta il 10 maggio 2019, a 93 anni, tutta la Basilicata, da Pescopagano a Potenza hanno cercato di appropriarsene ed onorarlo).
Si era convenuto che nell’ambito delle tradizioni e superstizioni popolari il rito da filmare fosse quello della Narcatura: questo rituale, che a buon diritto fa capo alla medicina popolare, era stato in passato davvero utilizzato per una serie di sindromi tanto è vero che in letteratura si attestano aree geografiche in cui si curano con questa procedura tanto l’itterizia (il colore giallastro della pelle dovuto alla mancata eliminazione della bilirubina dal sangue) quanto l’astenia (una spossatezza persistente con dolori generali, attribuibile a problemi di natura ossea e neuromuscolare): la buona Rosaria Omaggio ne parla – nel libro – in riferimento all’itterizia, ma il rito di Sant’Andrea, di cui diremo, si riferisce all’astenia.
In ogni caso, per Narcatura si intende(va) la malattia dell’arco, nel senso che chi soffre di astenia, ad esempio, presenta una variazione nella lunghezza fisiologica degli archi anatomici – gomiti e ginocchi – per cui, in caso di presenza del male, la distanza misurata dalla sommità del capo ai calcagni, non risulta uguale all'ampiezza dell'apertura delle braccia, misurata dall'estremità del dito medio della mano destra a quella del medio della mano sinistra.
Ovviamente, la malattia era tanto più conclamata, quanto maggiore risultava essere la differenza tra le due misure. Ma nella cultura popolare, non solo i sintomi sono evidenziabili dagli archi del corpo, ma addirittura la causa scatenante era attribuita ad un arco, nel senso che chi si era ammalato aveva attraversato un arco precedentemente attraversato da un malato che non si era curato e guarito: da ciò, il male dell’arco (in alcune aree la contaminazione cattolica del rito – le cui origini sono ovviamente pagane - ha determinato il ricorso alla Madonna dell’Arco)!
A Sant’Andrea nel 1988 era ancora viva una potente guaritrice – probabilmente Di Nola l’aveva saputo da Petoia – una contadina intelligente, vivace, con una memoria eccezionale e, a suo modo, colta.
Zia Angelina Tobia1 (la Sciucche) sapeva leggere e scrivere, ed aveva nel tempo anche raccolto delle sue poesie e filastrocche che, prima di cominciare le riprese, lesse al regista Di Gianni che l’ascoltava ammirato.
Zia Angelina era avvezza a questo tipo di interviste: in anni precedenti mio fratello, all’epoca iscritto a Sociologia a Salerno, grazie all’amicizia di nostra nonna Filomena, riuscì a farle una lunga registrazione sulle sue arti di guaritrice.
In paese era considerata sicuramente la più esperta ed era ritenuta l’ultima risorsa, specie nel caso di malocchio persistente: mio padre, ad esempio, ne faceva uso continuo, e aveva accesso illimitato.
Dovendo realizzare una messinscena c’era bisogno di un “malato” plausibile: scegliemmo Antonio Angrisani (Antoniuccio Scimbò) che già solo a vederlo si poteva arguire che avesse la narcatura!
E così nel primo pomeriggio ci recammo in Via Garibaldi, dove la Sciucche viveva: una casa modesta ad un solo piano, con un paio di stanze che ricordava le tipiche case dei contadini di un tempo dei nostri paesi, e ciò dava maggiore credibilità al documentario: io Liberato ed Erberto accompagnammo il regista e l’operatore, che all’epoca doveva gestire una telecamera di quelle pesanti che forse non si usano più: la sottolineatura è importante, poiché il documentario fu realizzato in oltre sei ore di riprese: terminammo col buio!
Antoniuccio, per evidenti esigenze scenografiche, vestì i panni del defunto marito di zia Angelina, zio Pietro (Di Guglielmo), mentre il regista si faceva spiegare la procedura rituale.
Così Antoniuccio fu fatto sdraiare sul pavimento, steso sul dorso, con i piedi giunti e le braccia allargate a 180 gradi. Zia Angelina aveva tra le mani un rocchetto di spago da cui tagliò il segmento corrispondente alla lunghezza del corpo del paziente dalla testa ai piedi; poi con quel filo ripetette la procedura tra medio della mano sinistra e quello di destra, per misurare la eventuali differenze.
Terminate le misure, zia Angelina espresse la sua diagnosi: era chiaro che Antoniuccio avesse la narcatura in stadio avanzato. Così fu fatto alzare e fatto sedere.
A questo punto zia Angelina – che aveva avvolto il filo in un piccolissimo gomitolo che teneva tra le dita – prese un uovo (fresco!) e cominciò a tracciare sul guscio con una matita delle linee orizzontali e verticali, mentre recitava la preghiera del Padre nostro e per tre volte una cantilena di cui poi si intesero essere strofe che dicevano: «Pullice – pulcino – della terra nata, dammi la virtù che Dio ti ha data. Padre, Figlio e Spirito Santo».
A questo punto – pare con riferimento alla Madonna dell’Arco –, benedisse l’uovo, disegnando tre croci, lo bucò e lo offrì ad Antoniuccio incitandolo a bere fino all’ultima goccia: e qui accadde l’incredibile!
Antoniuccio era davvero un signore dalla salute precaria e dalla fame indomabile: il regista non fece in tempo al dare il via che Antoniuccio aveva già bevuto l’uovo!
La povera – ma sempre vivace – zia Angelina fu costretta a ripetere daccapo la fase dell’uovo, ma incredibile a dirsi, la cosa si ripeté uguale per almeno quattro o cinque volte, Antoniuccio era più veloce del cameraman, tant’è che Di Gianni perse la calma e quasi inveì verso Antoniuccio, mentre noi tre nascondemmo a stento la risata.
Chiusa fortunatamente questa fase, che stava per davvero diventando impossibile, si era fatta quasi sera e noi cominciammo a preoccuparci, visto che il rito prevedeva ancora diverse azioni.
Ma, guardando il filmato realizzato, il regista Di Gianni si accorse che mentre zia Angelina prendeva le misure, era stata costretta a mettersi in una posizione tale da dare le spalle alla telecamera e le immagini non risultavano chiare: che fare?
Luigi, rivolgendosi a noi, disse: «bisognerebbe trovare una persona credibile che facesse da aiutante della guaritrice».
Ci affacciammo sull’uscio della casetta e proprio in quell’istante stava scendendo su via Garibaldi Michele Russoniello, La mosca il barbiere: gli spiegammo cosa stavamo facendo e lui di buon grado accettò (era un nostro amico e compagno!)
Michele aveva smesso l’attività per età, ma pochi mesi prima aveva avuto anche una paresi facciale sul lato destro che gli aveva lasciato il segno sulla bocca.
Entrato in casa e vestito anche lui con una giacca del compianto zio Pietro, Michele si adoperò per mantenere il filo sulla mano dove gli era stato indicato, ma ad un certo punto Luigi bloccò la ripresa dicendo verso Michele: «perché ridi?»
Al che Michele sorpreso e risentito disse: «chi, io?» fummo costretti a chiarire l’equivoco e le riprese continuarono in tranquillità facendo girare Michele dal lato opposto, così da non esporre il lato destro della faccia con la paresi!
Le riprese in casa erano finalmente finite, ma il rito doveva continuare e si era ormai fatto buio.
Dopo una prima fase di cura (con ben 5 uova, fresche!), il rito prevedeva che la guarigione si realizzasse liberandosi definitivamente della narcatura, ossia liberandosi del filo che l’aveva misurata. Come?
Passando, con il filo in mano, sotto tre archi (ritorna il numero tre, magico e perfetto, essendo al somma dei primi due!) recitando la formula «arca passa e narcatura lassa» per due volte, finché alla terza la formula diventa «arca passata e narcatura lassata» buttando finalmente il filo oltre l’arco (in alcune aree geografiche, il rito prevede anche la presenza di un corso d’acqua per liberarsi del filo!).
Sembrava la fine, ma per concludere il documentario fu necessario impiegare quasi altre due ore: dovemmo per prima cosa decidere attraverso quali archi far passare il povero Antoniuccio, avendo comunque pensato di finire attraversando l’Arco della Terra, che con la sua imponenza rappresenta l’arco più bello del paese, quello che dal rione Purgatorio in basso porta verso il centro, bisognava individuare gli altri due.
Considerata la nostra posizione di partenza, via Garibaldi, si decise di andare nel cuore del paese, verso l’Episcopio, invitando Antoniuccio a passare sotto l’arco del Convento. Eravamo al buio, o quasi, ma il cameramen aveva un grosso faro che illuminò uno degli archi del Convento, per cui quindi camminare sembrava agevole. Purtroppo, non avevamo considerato che a terra c’erano delle travi di ferro, per cui proprio mentre recitava arca passa, Antoniuccio inciampò, cadde a terra senza dire alcunché: il povero Luigi Di Gianni impaurito e mortificato gridò: «Antoniuccio! cosa ti sei fatto?!»
Antoniuccio, come nulla fosse, si alzò, ed in silenzio riprese l’azione: la prima stazione di quello che stava davvero diventando una via Crucis era completata!
Il secondo arco venne spontaneo, scendendo dall’Episcopio, e fu quello di via Orsini che porta al giardino Scalzullo.
Tuttavia, mentre stavamo registrando il passaggio sotto l’arco, comparve un gatto che impaurito cominciò a miagolare furiosamente: si allertò la madre dell’architetto Zampella che, preoccupata per il trambusto, aprì di scatto la finestra chiedendo cosa stessimo facendo. La ripresa fu nuovamente interrotta!
Spiegata la nostra presenza, e tornata la calma, potemmo svolgere anche il secondo passaggio; poi, di gran lena, scendemmo giù verso l’Arco della Terra.
Finalmente giunti, non c’era nessuno e Antoniuccio poté concludere la formula in santa pace.
Ma, sentiti i rumori, comparve in quell’istante sull’uscio di casa il segretario D’Angola che, incuriosito chiese chi fossimo: per fortuna, Antoniuccio era riuscito a buttare il filo!
Ci congratulammo per la grande impresa, Luigi era stanco ma molto soddisfatto e ci salutammo perché il giorno dopo doveva andare a Barile – mi pare – per filmare un altro rito di medicina popolare.
Nonostante tutta questa odissea, l’Incredibile doveva ancora accadere: la trasmissione di Maria Rosaria Omaggio fu sospesa e il nostro documentario non fu mai trasmesso.
Il guaio è che nessuno sa che fine abbia fatto: del resto, sia Di Nola, che Di Gianni che Maria Rosaria Omaggio, non potranno più darci risposta, ma a me resta – ancora vivo – il pomeriggio di un giorno davvero incredibile, per non dire speciale!
Gerardo Vespucci